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Oggi 27 gennaio è la Giornata della Memoria
venerdì 27 gennaio 2017, di redazione
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Dopo venti giorni di Ka-Be, essendosi la mia ferita praticamente rimarginata, con mio vivo dispiacere sono stato messo in uscita.
La cerimonia è semplice, ma comporta un doloroso e pericoloso periodo di riassestamento. Chi non dispone di particolari appoggi, all’uscita dal Ka-Be non viene restituito al suo Block e al suo Kommando di prima, ma è arruolato, in base a criteri a me sconosciuti, in una qualsiasi altra baracca e avviato a un qualsiasi altro lavoro. Di più, dal Ka-Be si esce nudi; si ricevono vestiti e scarpe «nuovi» (intendo dire, non quelli lasciati all’ingresso), intorno a cui bisogna adoperarsi con rapidità e diligenza per adattarli alla propria persona, il che comporta fatica e spese. Occorre procurarsi daccapo cucchiaio e coltello; infine, e questa è la circostanza più grave, ci si trova intrusi in un ambiente sconosciuto, fra compagni mai visti e ostili, con capi di cui non si conosce il carattere e da cui quindi è difficile guardarsi.
La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente, e meriterebbe uno studio approfondito. Si tratta di un prezioso lavorio di adattamento, in parte passivo e inconscio, e in parte attivo: di piantare un chiodo sopra la cuccetta per appendervi le scarpe di notte; di stipulare taciti patti di non aggressione coi vicini; di intuire e accettare le consuetudini e le leggi del singolo Kommando e del singolo Block. In virtù di questo lavoro, dopo qualche settimana si riesce a raggiungere un certo equilibrio, un certo grado di sicurezza di fronte agli imprevisti; ci si è fatto un nido, il trauma del travasamento è superato.
Ma l’uomo che esce dal Ka-Be, nudo e quasi sempre insufficientemente ristabilito, si sente proiettato nel buio e nel gelo dello spazio siderale. I pantaloni gli cascano di dosso, le scarpe gli fanno male, la camicia non ha bottoni. Cerca un contatto umano, e non trova che schiene voltate. È inerme e vulnerabile come un neonato, eppure al mattino dovrà marciare al lavoro.
In queste condizioni mi trovo io quando l’infermiere, dopo i vari riti amministrativi prescritti, mi ha affidato alle cure del Blockältester del Block 45. Ma subito un pensiero mi colma di gioia: ho avuto fortuna, questo è il Block di Alberto!
Alberto è il mio migliore amico. Non ha che ventidue anni, due meno di me, ma nessuno di noi italiani ha dimostrato capacità di adattamento simili alle sue. Alberto è entrato in Lager a testa alta, e vive in Lager illeso e incorrotto. Ha capito prima di tutti che questa vita è guerra; non si è concesso indulgenze, non ha perso tempo a recriminare e a commiserare sé e gli altri, ma fin dal primo giorno è sceso in campo. Lo sostengono intelligenza e istinto: ragiona giusto, spesso non ragiona ed è ugualmente nel giusto. Intende tutto al volo: non sa che poco francese, e capisce quanto gli dicono tedeschi e polacchi. Risponde in italiano e a gesti, si fa capire e subito riesce simpatico. Lotta per la sua vita, eppure è amico di tutti. «Sa» chi bisogna corrompere, chi bisogna evitare, chi si può impietosire, a chi si deve resistere.
Eppure (e per questa sua virtù oggi ancora la sua memoria mi è cara e vicina) non è diventato un tristo. Ho sempre visto, e ancora vedo in lui, la rara figura dell’uomo forte e mite, contro cui si spuntano le armi della notte.
Non sono però riuscito a ottenere di dormire in cuccetta con lui, e neppure Alberto ci è riuscito, quantunque nel Block 45 egli goda ormai di una certa popolarità. È peccato, perché avere un compagno di letto di cui fidarsi, o con cui almeno ci si possa intendere, è un inestimabile vantaggio; e inoltre, adesso è inverno, e le notti sono lunghe, e dal momento che siamo costretti a scambiare sudore, odore e calore con qualcuno, sotto la stessa coperta e in settanta centimetri di larghezza, è assai desiderabile che si tratti di un amico.
D’inverno, le notti sono lunghe, e ci è concesso per il sonno un intervallo di tempo considerevole.
Si spegne a poco a poco il tumulto del Block; da più di un’ora è terminata la distribuzione del rancio serale, e soltanto qualche ostinato persiste a grattare il fondo ormai lucido della gamella, rigirandola minuziosamente sotto la lampada, con la fronte corrugata per l’attenzione. L’ingegner Kardos gira per le cuccette a medicare i piedi feriti ed i calli suppurati, questa è la sua industria; non c’è chi non rinunzi volentieri ad una fetta di pane, pur che gli venga alleviato il tormento delle piaghe torpide, che sanguinano ad ogni passo per tutta la giornata, ed in questo modo, onestamente, l’ingegner Kardos ha risolto il problema di vivere.
Dalla porticina posteriore, di nascosto e guardandosi attorno con cautela, è entrato il cantastorie. Si è seduto sulla cuccetta di Wachsmann, e subito gli si è raccolta attorno una piccola folla attenta e silenziosa. Lui canta una interminabile rapsodia yiddisch, sempre la stessa, in quartine rimate, di una melanconia rassegnata e penetrante (o forse tale la ricordo perché allora ed in quel luogo l’ho udita?); dalle poche parole che capisco, dev’essere una canzone da lui stesso composta, dove ha racchiuso tutta la vita del Lager, nei più minuti particolari. Qualcuno è generoso, e rimunera il cantastorie con un pizzico di tabacco o una gugliata di filo; altri ascoltano assorti, ma non dànno nulla.
Risuona ancora improvviso il richiamo per l’ultima funzione della giornata: - Wer hat kaputt die Schuhe? - (chi ha le scarpe rotte?) e subito si scatena il fragore dei quaranta o cinquanta pretendenti al cambio, i quali si precipitano verso il Tagesraum con furia disperata, ben sapendo che soltanto i dieci primi arrivati, nella migliore delle ipotesi, saranno soddisfatti.
Poi è la quiete. La luce si spegne una prima volta, per pochi secondi, per avvisare i sarti di riporre il preziosissimo ago e il filo; poi suona lontano la campana, e allora si insedia la guardia di notte e tutte le luci si spengono definitivamente. Non ci resta che spogliarci e coricarci.
Non so chi sia il mio vicino; non sono neppure sicuro che sia sempre la stessa persona, perché non l’ho mai visto in viso se non per qualche attimo nel tumulto della sveglia, in modo che molto meglio del suo viso conosco il suo dorso e i suoi piedi. Non lavora nel mio Kommando e viene in cuccetta solo al momento del silenzio; si avvoltola nella coperta, mi spinge da parte con un colpo delle anche ossute, mi volge il dorso e comincia subito a russare. Schiena contro schiena, io mi adopero per conquistarmi una superficie ragionevole di pagliericcio; esercito colle reni una pressione progressiva contro le sue reni, poi mi rigiro e provo a spingere colle ginocchia, gli prendo le caviglie e cerco di sistemarle un po’ più in là in modo da non avere i suoi piedi accanto al viso: ma tutto è inutile, è molto più pesante di me e sembra pietrificato dal sonno.
Allora io mi adatto a giacere così, costretto all’immobilità, per metà sulla sponda di legno. Tuttavia sono così stanco e stordito che in breve scivolo anch’io nel sonno, e mi pare di dormire sui binari del treno.
Il treno sta per arrivare: si sente ansare la locomotiva, la quale è il mio vicino. Non sono ancora tanto addormentato da non accorgermi della duplice natura della locomotiva. Si tratta precisamente di quella locomotiva che rimorchiava oggi in Buna i vagoni che ci hanno fatto scaricare: la riconosco dal fatto che anche ora, come quando è passata vicina a noi, si sente il calore che irradia dal suo fianco nero. Soffia, è sempre più vicina, è sempre sul punto di essermi addosso, e invece non arriva mai. Il mio sonno è molto sottile, è un velo, se voglio lo lacero. Lo farò, voglio lacerarlo, così potrò togliermi dai binari. Ecco, ho voluto, e ora sono sveglio: ma non proprio sveglio, soltanto un po’ di più, al gradino superiore della scala fra l’incoscienza e la coscienza. Ho gli occhi chiusi, e non li voglio aprire per non lasciar fuggire il sonno, ma posso percepire i rumori: questo fischio lontano sono sicuro che è vero, non viene dalla locomotiva sognata, è risuonato oggettivamente: è il fischio della Decauville, viene dal cantiere che lavora anche di notte. Una lunga nota ferma, poi un’altra più bassa di un semitono, poi di nuovo la prima, ma breve e tronca. Questo fischio è una cosa importante, e in qualche modo essenziale: così sovente l’abbiamo udito, associato alla sofferenza del lavoro e del campo, che ne è divenuto il simbolo, e ne evoca direttamente la rappresentazione, come accade per certe musiche e certi odori.
Qui c’è mia sorella, e qualche mio amico non precisato, e molta altra gente. Tutti mi stanno ascoltando, e io sto raccontando proprio questo: il fischio su tre note, il letto duro, il mio vicino che io vorrei spostare, ma ho paura di svegliarlo perché è più forte di me. Racconto anche diffusamente della nostra fame, e del controllo dei pidocchi, e del kapo che mi ha percosso sul naso e poi mi ha mandato a lavarmi perché sanguinavo. È un godimento intenso, fisico, inesprimibile, essere nella mia casa, fra persone amiche, e avere tante cose da raccontare: ma non posso non accorgermi che i miei ascoltatori non mi seguono. Anzi, essi sono del tutto indifferenti: parlano confusamente d’altro fra di loro, come se io non ci fossi. Mia sorella mi guarda, si alza e se ne va senza far parola.
Allora nasce in me una pena desolata, come certi dolori appena ricordati della prima infanzia: è dolore allo stato puro, non temperato dal senso della realtà e dalla intrusione di circostanze estranee, simile a quelli per cui i bambini piangono; ed è meglio per me risalire ancora una volta in superficie, ma questa volta apro deliberatamente gli occhi, per avere di fronte a me stesso una garanzia di essere effettivamente sveglio.
Il sogno mi sta davanti, ancora caldo, e io, benché sveglio, sono tutt’ora pieno della sua angoscia: e allora mi ricordo che questo non è un sogno qualunque, ma che da quando sono qui l’ho già sognato, non una ma molte volte, con poche variazioni di ambiente e di particolari. Ora sono in piena lucidità, e mi rammento anche di averlo già raccontato ad Alberto, e che lui mi ha confidato, con mia meraviglia, che questo è anche il suo sogno, e il sogno di molti altri, forse di tutti. Perché questo avviene? perché il dolore di tutti i giorni si traduce nei nostri sogni così costantemente, nella scena sempre ripetuta della narrazione fatta e non ascoltata?
... Mentre così medito, cerco di profittare dell’intervallo di veglia per scuotermi di dosso i brandelli di angoscia del sopore precedente, in modo da non compromettere la qualità del sonno successivo. Mi rannicchio a sedere nel buio, mi guardo intorno e tendo l’orecchio.
Si sentono i dormienti respirare e russare, qualcuno geme e parla. Molti schioccano le labbra e dimenano le mascelle. Sognano di mangiare: anche questo è un sogno collettivo. È un sogno spietato, chi ha creato il mito di Tantalo doveva conoscerlo. Non si vedono soltanto i cibi, ma si sentono in mano, distinti e concreti, se ne percepisce l’odore ricco e violento; qualcuno ce li avvicina fino a toccare le labbra, poi una qualche circostanza, ogni volta diversa, fa sì che l’atto non vada a compimento. Allora il sogno si disfa e si scinde nei suoi elementi, ma si ricompone subito dopo, e ricomincia simile e mutato: e questo senza tregua, per ognuno di noi, per ogni notte e per tutta la durata del sonno.
Devono essere passate le ventitré perché già è intenso l’andirivieni al secchio, accanto alla guardia di notte. È un tormento osceno e una vergogna indelebile: ogni due, ogni tre ore ci dobbiamo alzare, per smaltire la grossa dose di acqua che di giorno siamo costretti ad assorbire sotto forma di zuppa, per soddisfare la fame: quella stessa acqua che alla sera ci gonfia le caviglie e le occhiaie, impartendo a tutte le fisionomie una deforme rassomiglianza, e la cui eliminazione impone ai reni un lavoro sfibrante.
Non si tratta solo della processione al secchio; è legge che l’ultimo utente del secchio medesimo vada a vuotarlo alla latrina; è legge altresì, che di notte non si esca dalla baracca se non in tenuta notturna (camicia e mutande), e consegnando il proprio numero alla guardia. Ne segue, prevedibilmente, che la guardia notturna cercherà di esonerare dal servizio i suoi amici, i suoi connazionali, e i prominenti; si aggiunga ancora che i vecchi del campo hanno talmente affinato i loro sensi che, pur restando nelle loro cuccette, sono miracolosamente in grado di distinguere, soltanto in base al suono delle pareti del secchio, se il livello è ono al limite pericoloso, per cui riescono quasi sempre a sfuggire alla svuotatura. Perciò i candidati al servizio del secchio sono, in ogni baracca, un numero assai limitato, mentre i litri complessivi da eliminare sono almeno duecento, e il secchio deve quindi essere vuotato una ventina di volte.
In conclusione, è assai grave il rischio che incombe su di noi, inesperti e non privilegiati, ogni notte, quando la necessità ci spinge al secchio. Improvvisamente la guardia di notte balza dal suo angolo e ci agguanta, si scarabocchia il nostro numero, ci consegna un paio di suole di legno e il secchio, e ci caccia fuori in mezzo alla neve, tremanti e insonnoliti. A noi tocca trascinarci fino alla latrina, col secchio che ci urta i polpacci nudi, disgustosamente caldo; è pieno oltre ogni limite ragionevole, e inevitabilmente, con le scosse, qualcosa ci trabocca sui piedi, talché, per quanto questa funzione sia ripugnante, è pur sempre preferibile esservi comandati noi stessi piuttosto che il nostro vicino di cuccetta.
Così si trascinano le nostre notti. Il sogno di Tantalo e il sogno del racconto sai inseriscono in un tessuto di immagini più indistinte: la sofferenza del giorno, composta di fame, percosse, freddo, fatica, paura e promiscuità, si volge di notte in incubi informi di inaudita violenza, quali nella vita libera occorrono solo nelle notti di febbre. Ci si sveglia a ogni istante, gelidi di terrore, con un sussulto di tutte le membra, sotto l’impressione di un ordine gridato da una voce piena di collera, in una lingua incompresa. La processione del secchio e i tonfi dei calcagni nudi sul legno del pavimento, si mutano in un’altra simbolica processione: siamo noi, grigi e identici, piccoli come formiche e grandi fino alle stelle, serrati l’uno contro l’altro, innumerevoli per tutta la pianura all’orizzonte; talora fusi in un’unica sostanza, un impasto angoscioso in cui ci sentiamo invischiati e soffocati; talora in marcia a cerchio, senza principio e senza fine, con vertigine accecante e una marea di nausea che ci sale dai precordi alla gola; finché la fame, o il freddo, o la pienezza della vescica non convogliano i sogni entro gli schemi consueti. Cerchiamo invano, quando l’incubo stesso o il disagio ci svegliano, di districarne gli elementi, e di ricacciarli separatamente fuori dal campo dell’attenzione attuale, in modo da difendere il sonno dalla loro intrusione: non appena gli occhi si richiudono, ancora una volta percepiamo il nostro cervello mettersi in moto al di fuori del nostro volere; picchia e ronza, incapace di riposo, fabbrica fantasmi e segni terribili, e senza posa li disegna e li agita in nebbia grigia sullo schermo dei sogni.
Ma per tutta la durata della notte, attraverso tutte le alternanze di sonno, di veglia e di incubo, vigila l’attesa e il terrore del momento della sveglia: mediante la misteriosa facoltà che molti conoscono, noi siamo in grado, pur senza orologi, di prevederne lo scoccare con grande approssimazione. All’ora della sveglia, che varia da stagione a stagione ma cade sempre assai prima dell’alba, suona a lungo la campanella del campo, e allora in ogni baracca la guardia di notte smonta: accende le luci, si alza, si stira, e pronunzia la condanna di ogni giorno: - Aufstehen, - o più spesso, in polacco: - Wstawac.
Pochissimi attendono dormendo lo Wstawac: è un momento di pena troppo acuta perché il sonno più duro non si sciolga al suo approssimarsi. La guardia notturna lo sa, ed è per questo che non lo pronunzia con tono di comando, ma con voce piana e sommessa, come di chi sa che l’annunzio troverà tutte le orecchie tese, e sarà udito e obbedito.
La parola straniera cade come una pietra sul fondo di tutti gli animi. «Alzarsi»: l’illusoria barriera delle coperte calde, l’esile corazza del sonno, la pur tormentosa evasione notturna, cadono a pezzi intorno a noi, e ci ritroviamo desti senza remissione, esposti all’offesa, atrocemente nudi e vulnerabili. Incomincia un giorno come ogni giorno, lungo a tal segno da non potersene ragionevolmente concepire la fine, tanto freddo, tanta fame, tanta fatica ce ne separano: per cui è meglio concentrare l’attenzione e il desiderio sul blocchetto di pane grigio, che è piccolo, ma fra un’ora sarà certamente nostro, e per cinque minuti, finché non l’avremo divorato, costituirà tutto quanto la legge del luogo ci consente di possedere.
Allo Wstawac si rimette in moto la bufera. L’intera baracca entra senza transizione in attività frenetica: ognuno si arrampica su e giù, rifà la cuccetta e cerca contemporaneamente di vestirsi, in modo da non lasciare nessuno dei suoi oggetti incustodito; l’atmosfera si riempie di polvere fino a diventare opaca; i più svelti fendono a gomitate la calca per recarsi al lavatoio e alla latrina prima che vi si costituisca la coda. Immediatamente entrano in scena gli scopini, e cacciano tutti fuori, picchiando e urlando.
Quando io ho rifatto la cuccia e mi sono vestito, scendo sul pavimento e mi infilo le scarpe. Allora mi si riaprono le piaghe dei piedi, e incomincia una nuova giornata.
Da Primo Levi: Se questo è un uomo