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La vita “normale” del Lager
Cominciò la vita nel lager di Flossenbürg. Al mattino alle ore cinque e trenta, sveglia; subito al bagno, con acqua fredda, per la pulizia personale. La sveglia avveniva in questo modo: negli spazi tra una fila e l’altra dei castelli, si piazzavano ben distribuiti dei picchiatori che all’accensione della luce gridavano Austen (alzarsi) e con dei manganelli picchiavano, con crudeltà e forza criminale. Lascio all’immaginazione di chi legge quanto là accadeva, realtà tragica ed infernale difficile da raccontare anche per chi l’ha vissuta. La pulizia personale avveniva in 10-15 minuti, i ritardatari venivano puniti con manganellate; poi seguiva l’adunata fuori dai blocchi per l’appello, anche un’ora sull’attenti, cappello in mano, anche a 17 gradi sotto zero e in mezzo ad ottanta centimetri di neve. Dopo una tazza di caffè che era in realtà acqua sporca, i giovani venivano incolonnati e avviati ai lavori nel campo, o nel paese oppure alla cava di pietra. I lavori al campo consistevano nel trasportare al crematorio i cadaveri su un carretto, oppure nei lavatoi bagnare con acqua gelida i moribondi per accelerarne la fine o piazzare i pali per le impiccagioni. In paese invece dovevamo spalare la neve, lavoro che veniva effettuato in questo modo: io con la pala buttavo la neve ai bordi della strada, l’altro prigioniero la ributtava in centro, gli aguzzini SS passavano e osservavano dove il mucchio di neve fosse più alto, per picchiare i malcapitati, lenti secondo loro nello spalare, che venivano poi segnalati al kapò per la punizione al campo.
Alla cava si trasportavano pietre. A mezzogiorno veniva distribuito un quarto di litro di verdura trita, come per i maiali; alla sera alle 17 si ritornava al campo, passando attraverso il paese dove si raccoglievano gli sputi e gli insulti della gente. C’é un episodio che non dimenticherò mai. Rientrando al campo, in paese passavamo sempre davanti ad una chiesa; ai piedi della scala che portava all’edificio vi era una croce con il Cristo, sopra la croce un tettuccio, opera tutta in legno. Un giorno, il comandante delle SS fece fermare il nostro gruppo; parlò con alcune persone presenti al nostro passaggio (anche donne e bambini), che poi si avvicinarono picchiandoci, sputandoci addosso e imprecando in tedesco. Tornammo come ogni sera al campo. Prima di rientrare in baracca, c’era l’adunata, in piedi, al freddo come al mattino dopo la sveglia; seguiva la visita pidocchi: uno alla volta salivamo su uno sgabello, due o tre aguzzini facevano luce con una lampada portatile sotto le ascelle, nelle parti intime e se non avevi fortuna, c’erano o non c’erano pidocchi, la tua camicia e gilet finivano in un mastello di acqua puzzolente e tu venivi passato con un grosso pennello bagnato di non so cosa.
Terminata questa operazione, aveva inizio la distribuzione del rancio serale, una pagnotta per dodici prigionieri e un cucchiaino di margarina, quando c’era. Alle venti a letto, si spegnevano le luci nei corridoi, scendeva il silenzio assoluto. Ma a qualsiasi ora della notte il riposo veniva interrotto dalla ripetizione della sveglia, fuori, nel campo, con i picchiatori schierati; tante volte ci mettevano sotto a docce caldissime e poi immediatamente fredde, così bagnati ci vestivamo e ci disponevamo in fila nel piazzale, anche più di un’ora, poi di nuovo in baracca.
Questa era la vita “normale” al campo, se escludiamo i vari “infortuni”, così chiamavamo tutto quello che capitava fuori dalla normale vita giornaliera
“Infortuni” da lager
In questo campo rimasi una cinquantina di giorni e qualche “infortunio” lo passai anch’io. Il primo: una mattina, metà del nostro blocco fu destinato ai lavori nel campo; io quel giorno ritenni di essere stato fortunato perché ero stato escluso dai lavori. A mezza mattina fu ordinata l’adunata per quelli rimasti del blocco; avvenne che ci unirono ai resti di altri blocchi, formando una colonna che fu avviata verso il basso del campo. Nel cammino incrociammo la colonna che rientrava dai lavori nel campo; visti i miei compagni, feci un rapido dietrofront di cui nessuno si accorse e presi posto tra di loro, rientrando al blocco. Alla sera di quella colonna non rientrò più nessuno: poco tempo dopo venimmo a sapere che erano stati avviati tutti alla camera a gas. Ma non fu il mio unico “infortunio”. A questo ne seguì un altro. Una sera eravamo in fila per ritirare il pane, venne il mio turno. Willi, un francese aiutante del capoblocco (uno dei due vicekapò), che distribuiva le razioni, mi guardo fissò, poi guardò la mia matricola. Mi disse che avevo già ritirato la razione di pane; io risposi che non era vero, lui riaffermò quanto aveva detto, io negai. Mi mise da parte, continuando la distribuzione. Giunto alla fine della distribuzione andò dal kapò, non so che cosa si dissero, il fatto è che ritornarono in tre, alzarono l’asse che copriva il tavolo, ricavando uno spazio tra le gambe del tavolo ed il coperchio: lì mi infilarono testa e collo, due si sedettero sopra il coperchio, mentre l’altro mi picchiò sulla schiena,infliggendomi fino allo svenimento una ventina di vergate.
Trascinai quel male a lungo, ma devo dire che mi incoraggiò a resistere, perché in questo lasso di tempo avevo visto morire molti compagni, tra i quali Antonio Reina e Piero Perfumo.
Gianfranco Mariconti
MEMORIE DI VITA E DI INFERNO
A cura di Ercole Ongaro - Il Papiro Editrice “Altrastoria”