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L’avversione per le ingiustizie e il caso ne determinarono il destino
martedì 17 novembre 2015, di redazione
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Una storia poco o punto conosciuta nel nostro paese legata alla Seconda Guerra Mondiale ebbe come protagonista un nostro compaesano. Essa riguarda quel fenomeno non troppo presente nei libri di storia che a un certo punto coinvolse l’esercito italiano occupante la Jugoslavia, cioè il passaggio, è il caso di dire armi e bagagli, nelle file dell’altro schieramento.
La guerra era in pieno svolgimento con offensive nazifasciste su tutti i fronti. Gli alleati occupavano zone a macchia di leopardo. A cominciare dal mese di ottobre 1943 alcuni reparti italiani si unirono alle forze di liberazione jugoslave, come la Divisione di fanteria Venezia e la Divisione Alpina Taurinense, seguite via via da altri battaglioni e compagnie.
Ma fin dal 1941 singoli soldati o gruppi passarono con i partigiani. Ed è in questo quadro che si colloca la vicenda del nostro compaesano, da una parte additato assieme agli altri primi mille soldati come ’disertore’, considerato da altri come il primo soldato italiano a passare nelle file della Resistenza.
Un fatto che si sarebbe perso nell’oblìo se non gli avesse dato risalto lo scrittore e ricercatore Giacomo Scotti.
Ma è venuto il momento di rivelare il nome di quel soldato: Francesco Simonelli.
Prima di proseguire, due parole su Giacomo Scotti e sul suo interesse riguardo a Simonelli. Scotti è nato presso Napoli e giovanissimo partecipò al movimento di rivolta contro i tedeschi. Nel 1947 si stabilì in Jugoslavia. Ha collaborato con molti giornali pubblicando volumi di narrativa e saggistica. Ha scritto molte opere sulla Resistenza e l’antifascismo suscitando anche polemiche per alcuni suoi studi considerati revisionistici.
Il primo accenno su Simonelli lo troviamo in un intervento al convegno tenuto il 21 giugno 1980 su “ Il contributo italiano alla resistenza in Jugoslavia ” i cui Atti furono pubblicati da Fazzi Editore. Leggiamo a pag. 28 di questo volume: “Il primo partigiano italiano in Jugoslavia fu Francesco Simonelli, bracciante agricolo di Grazzanise, Caserta, che faceva il soldato fin da quando era partito per l’Abissinia. Giunto in Jugoslavia nell’aprile del 1941 dall’Albania, raggiunse i “ribelli nel pressi di Gospic in Croazia il 25 agosto dello stesso anno”.
Questa informazione la troviamo reiterata nel volume “ I disertori: le scelte dei militari italiani sul fronte jugoslavo prima dell’8 settembre ”, pubblicato presso Mursia nel 1980. A pag. 81 leggiamo: “... da queste [forze jugoslave] catturati e poi in gran parte rilasciati, indussero alcuni soldati, specialmente i più anziani per anni e per servizio militare (alcuni avevano fatto le campagne di Abissinia, di Spagna, Albania e Grecia) a passare sulla barricata dei “comunisti”. Qualcuno fece la scelta perché comunista lui stesso. E’ il caso di un fante napoletano, Francesco Simonelli, passato ai partigiani in Croazia”. E a pag. 82: “Il napoletano Simonelli divenne famoso per il suo coraggio. Prima mitragliere, divenne in seguito mortaista. Quattro volte ferito, dopo ogni guarigione tornò sempre in prima linea”.
L’anno scorso, 2014, Giacomo Scotto narra più estesamente la storia di Francesco Simonelli che ha conosciuto di persona. Lo fa nella sua ennesima opera dal titolo “Racconti Garibaldini: Jugoslavia 1943-45 ”, pubblicata presso Zanella Guido Editore. Ecco come introduce l’argomento: “Rileggendo la storia partigiana di Vittorio Drog detto “El Venezian”, che nel dopoguerra fiumano lavorò come tecnico alla Raffineria nafta, mi sono ricordato di un dettaglio che qui, quasi come una nota, ritengo di dover chiarire. Il Francesco detto “il napoletano” da lui incontrato nella Lika, nelle file del quarto battaglione d’assalto della seconda “Licka Brigada”, l’ho conosciuto anch’io qualche anno dopo la morte di Vittorio. Non viveva a Belgrado, ma a Sarajevo (dove poi si è spento), sposato con una bosniaca, padre di tre figlie. Si chiamava Francesco Simonelli, nato nel 1917 a Grazzanise in provincia di Caserta”.
In effetti il nostro nacque alle 6,29 del 29 gennaio 1917 al n° 38 di Via Annunciata. I suoi genitori erano: Simonelli Vincenzo e Di Stasio Maria.
“Fui a casa sua, - riprende Scotto - la moglie gli stava a fianco aiutandolo a ricordare fatti di guerra che lui fingeva di aver dimenticato. Francesco, ricordo, mi parlava in un italiano sgangherato mescolando nelle frasi termini dialettali napoletani e intere locuzioni in serbocroato. All’epoca si godeva una discreta pensione dopo essere stato, nel dopoguerra, dapprima comandante della polizia a Fiume, poi direttore di una azienda alberghiera e, infine, gerente di una modesta rivendita di tabacchi e giornali nella capitale bosniaca.
La prima cosa che Francesco mi disse, con orgoglio, fu che era stato congedato col grado di capitano e decorato con la Stella Partigiana 1941, concessa ai combattenti jugoslavi della prima ora. La cosa mi incuriosì e Ciccio Simonelli finì per “confessare” di essere stato uno dei primissimi a disertare l’esercito italiano in Jugoslavia. E mi spiegò il perché”.
E qui la narrazione si fa intrigante. Sembra una di quelle storie cinematografiche che parlano di guerra. “Quando fu chiamato alle armi era un giovane contadino analfabeta. Dagli ufficiali si fece subito conoscere come un abituale della cella di rigore; si ribellava ad ogni ingiustizia, anche la più piccola. In una lite con un graduato, Simonelli gli sferrò un colpo in testa così violento da ucciderlo. Fece il carcere militare dal 1938 al 1941, poi fu spedito in Jugoslavia, a Gospic, nel territorio al centro della guerriglia”.
Una destinazione senza dubbio punitiva. Considerato un facinoroso, un poco di buono, meritava una destinazione più pericolosa di altre. Ma anche in Jugoslavia e malgrado i precedenti non venne meno la sua natura focosa e spavalda. Lo scrittore così continua: “Pochi giorni dopo l’arrivo, trovandosi in libera uscita, in osteria, fu testimone di un triste spettacolo: due ufficiali croati ustascia, senza alcun motivo, presero a schiaffeggiare la cameriera. Francesco saltò su dalla sedia e, senza pensarci troppo, impugnò il fucile per la canna e lo abbatté come una clava sulla testa del primo ufficiale capitatogli a tiro. Per evitare il peggio, raggiunse i partigiani e restò a combattere con loro. Era il 25 agosto 1941.
Battaglie, marce di spostamento dalla Lika alla Nanija ed al Kordun, tutte regioni abitate in prevalenza da serbi della Croazia, poi la Bosnia dove avrebbe combattuto fino alla fine della guerra. Francesco Simonelli non era fatto per raccontare. Sintetizzò dicendo di essere rimasto quattro volte ferito. Era mitragliere e divenne famoso per il suo coraggio. Dopo ogni guarigione, tornava sempre in prima linea, accumulando encomi, medaglie, promozioni, ma anche punizioni, la perdita dei gradi e dei comandi, per essere poi nuovamente comandante di plotoni e compagnie...”.
Così dopo aver trascorso diversi anni su vari fronti di guerra, a cominciare dall’Abissina, dopo aver dato prova di coraggio e insofferenza per le soperchierie dei superiori, Simonelli cerca di dare un senso alla sua vita sforzandosi anche di recuperare delle abilità che aveva dovuto trascurare.
“Alla fine della guerra aveva il grado di capitano e, per la prima volta, prese in mano la matita per imparare a leggere e scrivere. Oltre alla conoscenza dell’alfabeto non andò, la penna gli era più pesante del fucile mitragliatore. Soprattutto non ce la fece ad imparare bene la lingua del paese nel quale si era fermato mettendo famiglia. Inutilmente i superiori cercarono di spingerlo avanti, prospettandogli la promozione a maggiore, l’assegnazione di incarichi di maggiore responsabilità. I consigli non valsero, Simonelli abbandonò il comando della polizia, lasciò la poltrona di direttore, cambiò città per rifugiarsi nel negozietto di tabacchi e giornali nella bella Sarajevo. Era felice così. Felice della sua casa, della moglie Angela, delle tre figlie. Quando lo conobbi la primogenita Maria era quindicenne, la seconda aveva dieci anni e si chiamava Clorinda e l’ultima, di cinque anni, Sanja. Soprattutto era felice di aver rivisto la sua Grazzanise, dopo trentadue lunghissimi anni di assenza, nel 1972. Fu una visita breve, tanto per togliersi di dosso la nostalgia.
Fece subito ritorno a Sarajevo, dove non era l’unico italiano che capitava di incontrare”.
Quest’ultima notizia è confermata da un omonimo nipote il quale ricorda che lo zio fece effettivamente un breve soggiorno a Grazzanise ospitato dai parenti e ricorda anche che aveva difficoltà a parlare il suo vecchio idioma napoletano, inframezzandolo nella sua parlata croata che gli altri non capivano.
frates