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Un viaggio in Calabria con Vito Teti: tra paesi abbandonati e ruderi parlanti

lunedì 26 aprile 2021, di redazione


Leggere il monumentale libro dell’antropologo calabrese Vito Teti non fa che confermare la felice immagine, solo apparentemente paradossale, che il viaggio più intenso lo si compie stando fermi. È quanto accade con l’inoltrarsi nella lettura de Il senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati [Donzelli, 2014 (1^ ed. 2004), pp. 593 - Euro 27,00], una sorta di atlante che ci consente di attraversare quasi tutta la Calabria per ripercorrerne la storia e le tradizioni religiose, i drammi e le leggende, le invasioni turchesche, i mutamenti e le migrazioni, le attese e le delusioni, che fanno di questa regione una “terra inquieta”, una continua “terra in fuga”.
In esso l’autore, come reca il sottotitolo, prende in considerazione i paesi interni che, nel corso dei secoli, per effetto di sconvolgimenti naturali (terremoti, alluvioni, frane), di crisi economico-sociali (miseria, fame, depauperamento delle attività produttive), dei conseguenti flussi migratori (al Nord, o all’estero), oppure di spostamenti lungo le coste, hanno conosciuto via via, processi di erosione, di spopolamento, di abbandono, ingenerando difficili precarietà, conflitti comunitari, stranianti crisi identitarie.
Restano ben visibili i segni lasciati dallo spaventoso tremuoto del 1783, dopo quelli del 1638 e prima ancora di altri flagelli come quelli del 1905 e del 1908 (Messina), eventi la cui drammatica esperienza di “fine del mondo” è stata tramandata di generazione in generazione, alimentando un continuo senso di precarietà, di inquietudine. Così i paesi morti o in via di abbandono, vengono progressivamente inghiottiti da un silenzio irreale: ovunque case sventrate, crollate, ricoperte di spine e rovi, pietre e ruderi aggrediti dalla vegetazione. L’elenco è sterminato, come puntualmente riportato nel lunghissimo Indice dei luoghi a fine libro. Impossibile elencarli tutti: ROGHUDI, il “paese più infelice d’Italia”; GHORÌO DI ROGHUDI, uno dei centri dell’area grecanica dove fino a pochi anni orsono sopravviveva l’antichissima parlata greca; PENTEDATTILO e il suo lento abbandono, il paese arroccato su rocce dalla forma di una mano; e ancora, BRIATICO e i suoi antichi ruderi; MILETO e l’ombra della storia normanna (vi si trova la tomba di Ruggero), o gli impressionanti resti di OPPIDIO ANTICA e di CIRELLA, in cui poter cogliere quel misterioso e affascinante legame tra rovine e bellezza. E così, vengono passati in rassegna centinaia di paesi, villaggi, località minuscole, in completo stato di abbandono in cui il silenzio e il vento sembrano conferire loro una dimensione quasi sacrale, quasi fossero reliquie.
Vittime, sin dall’antichità, di calamità naturali, i calabresi sono stati costretti a spostarsi, vicino presso le coste, oppure lontano, al Nord, o all’estero (in particolare Germania, Francia, o alla Merica: Canada, Stati Uniti, Argentina) facendo registrare un alto tasso di mobilità che, allo stesso tempo, determinava un progressivo e inarrestabile calo demografico. Il fenomeno, peraltro, contraddice e smentisce l’immagine preconcetta di una Calabria, immobile, immota, statica, chiusa da millenni nel proprio orizzonte arcaico e incapace di aprirsi. Non solo, ma la Calabria è anche luogo geografico di visioni profetiche e di utopie con Gioacchino da Fiore e Tommaso Campanella, le cui elaborazioni di pensiero e speculazioni filosofiche hanno senz’altro impresso una dinamicità mentale nelle popolazioni locali. Al movimento ininterrotto sembrano partecipare anche le nuvole cangianti, che l’antropologo osserva e fotografa accuratamente, come pure il vento, quel vento mutevole e bizzarro, narrato nelle pagine di Corrado Alvaro o di Fortunato Seminara. Anche le grotte, misteriosi e antichissimi siti, di cui l’interno è disseminato, hanno ospitato eremiti, monaci basiliani, santi, fuggiaschi, briganti, in un secolare andirivieni che rappresenta un ulteriore elemento costitutivo delle genti calabresi.

L’autore, come un detective, s’avventura per questi centri spesso da solo, oppure in compagnia dell’amico architetto Ciccio Bartone, dell’indimenticabile scrittore Sandro Onofri o, a volte, dei suoi studenti universitari. L’esperienza delle pluridecennali escursioni per i paesi avvolti nel silenzio dell’abbandono, gli conferisce la capacità di percepire tutto:

«Sento l’inconfondibile odore di un fresco abbandono. Le persone sembravano avere dimenticato i loro oggetti, lasciato le porte socchiuse, le insegne fissate al muro, come se si fossero assentati per poco. Sembrano avere appeso qui la loro ombra in attesa di tornare ad indossarla».
Incontra personaggi ‘strani’, originali, autentici, tutti in preda a una struggente malinconia di fronte al passato che frana, come Giovanni Giramonti, falegname, «maestro» di CASTELSILANO, che ritorna al paese dopo tanti anni per dedicarsi al visionario compito di portare in salvo gli oggetti importanti della sua terra in una specie di Arca, prima del nuovo diluvio che s’abbatterà sull’umanità; oppure Giuseppe Mancini, anche lui vecchio emigrato che ritorna a CERENZIA e ama andare in cerca di grotte e visitare case abbandonate; o ancora Pietro Ercole, il barista del paese, che ha la passione di andare a “scoprire grotte” e ascoltare i “ruderi che piangono”, Antonio Pangallo, incurante dell’età e dei rischi, è il solo che risale ogni giorno all’antico paese, Roghudi, per guardare le sue pecore; a BRANCALEONE dove aleggia ancora la presenza di Cesare Pavese, confinato nel 1935 dal regime fascista, incontra Concetta Delfino, la mitica Concia che da ragazza fu l’inserviente dello scrittore piemontese, personaggio che attraversa tanta parte dell’opera pavesiana.
Si tratta di paesi che hanno ricostruito altrove, attraverso complesse dinamiche, la loro identità che spesso si ricompone e si rinsalda in occasione delle processioni durante le feste patronali oppure, durante i giorni in cui sono commemorati i defunti. Anzi, spesso, nei vecchi abitati, svuotati e abbandonati, l’unico luogo ad essere ben curato è proprio il cimitero, puntualmente visitato ogni anno, tanto che all’autore non sfugge la brillante riflessione che: «il paese morto ridiventa vivo il giorno dei morti». Proprio l’antica e consolidata usanza di culto per i defunti testimonia quanto sia necessario per le popolazioni riallacciare i propri legami, ritrovare le proprie radici, ricostruire storie e fatti. Un paese, pur abbandonato, non muore mai. Nella sua lenta agonia, vibra ancora nei cuori e nella mente di chi è stato costretto a partire, a vivere altrove, sia a pochi che a migliaia di chilometri di distanza.
Emblematici della drammaticità dei luoghi abbandonati per miseria, fame, terremoti, alluvioni, frane, ricostruiti e poi rinati altrove, con non poche contraddizioni, tra scelte tardive e poco lungimiranti delle istituzioni locali e nazionali, sono i casi di Africo, San Luca, Nardodipace, Badolato, Cirella.

AFRICO, il paese della «perduta gente», abbandonato dopo la disastrosa alluvione del ’51, saltò tristemente agli onori della cronaca nazionale per le misere condizioni in cui versava. A far conoscere l’estrema povertà e l’arretratezza del piccolo centro dell’Aspromonte, contribuirono le cronache e le impressionanti fotografie di Umberto Zanotti Bianco che di quei luoghi e dei loro abitanti scrisse, già anni prima, pagine sofferte e indimenticabili sull’indigenza e sull’isolamento che imprigionavano, in un chiuso orizzonte, gli africoti. Dopo molti anni, nel 1979, a fronte di una complessa vicenda di ricostruzione sulla costa ionica della nuova Africo, fu il libro inchiesta Africo, di Corrado Stajano a denunciare gli estenuanti ritardi da parte dello Stato e le infiltrazioni della criminalità nel processo di ricostruzione.

Intense e appassionate pagine l’autore dedica a SAN LUCA, paese natale di Corrado Alvaro che nei suoi libri «coglie e narra un processo storico in atto, “fotografa” il disfacimento geografico, fisico e morale dei paesi dell’interno, delinea un’antropologia dell’abbandono, fissa gli stati d’animo, le emozioni e la mentalità delle persone che vivono la dissoluzione di un mondo». Lo scrittore calabrese, peraltro, è stato attento osservatore e narratore delle usanze e delle tradizioni legate all’antico pellegrinaggio al Santuario della Madonna della Montagna di Polsi, dove ancora oggi, seppure in un quadro di profondi cambiamenti e nel contesto di una «religiosità più controllata», nei primi giorni di settembre accorrono migliaia di pellegrini in segno di devozione e di riconferma di un’identità che vede tornare ‘insieme’ residenti dei centri interni della Calabria, emigrati provenienti dal Nord o dai paesi esteri, giovani e studenti che vivono in un altrove incapace di cancellare il legame col luogo d’origine.

Anche NARDODIPACE subisce il lento e drammatico trasferimento del paese vecchio, vittima anch’esso dell’alluvione del ’51. Grazie ai resoconti dello scrittore Sharo Gambino, la condizione di Nardodipace diventa immediatamente nota agli italiani. La visita ai centri disastrati dell’allora Presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, imprime una forte accelerazione nella ricostruzione di Nardodipace nuova. Ma tutto si complica: invece di aggregare le comunità circostanti in un unico centro si finisce col dividersi, dando origine a una sorta di deflagrazione con la nascita di ben cinque nuovi abitati. A cospetto del nome, il paese non trova pace. Si sgretola il sentimento di solidarietà, il senso di comunità vacilla, le attività lavorative subiscono una grave crisi, prende il via la grande emigrazione transoceanica. Le popolazioni locali poi, subirono altre sciagure con l’alluvione del 1972-73. Di fronte al rischio di trasferirsi nuovamente altrove, le persone, nel ricordo degli avvenimenti di mezzo secolo prima, non erano più disposte a ulteriori sacrifici. Cominciò allora a prendere corpo una reazione comunitaria guidata soprattutto da giovani laureati e studenti, che proponevano di investire in una oculata ricostruzione degli abitati danneggiati, evitando altre sciagurate diaspore. Le forze politiche e sindacali di sinistra, interpretando la volontà dei cittadini, condussero una battaglia politica affinché il paese venisse ricostruito ricorrendo a manodopera e a risorse locali. Nardodipace divenne così agli occhi degli italiani il paese del riscatto e della resistenza delle popolazioni. Era possibile, finalmente, anche per gli altri centri, dare voce ai sogni del cambiamento.
Anche la Calabria, in quegli anni, era attraversata dal vento delle proteste popolari e da una generalizzata presa di coscienza di nuovi protagonisti chiamati a costruire il proprio futuro. L’autore – più volte presente a Nardodipace, durante quei momenti di entusiasmo e di fervore – ricostruisce sulla pagina quel clima di rinnovata fiducia e di partecipazione delle popolazioni:

«C’è in quella scelta anche il desiderio di restare o tornare per riscattare il proprio luogo. È un diverso rapporto col luogo d’origine che affermano intellettuali, diplomati, laureati proveniente dal mondo popolare a cui si sentono legati e a cui, in qualche modo, dichiarano fedeltà. È uno degli esiti più felici di quel ’68 che per molti di noi, figli di contadini, braccianti e di emigrati, significava, non già salotti alla moda, guerriglie, distruzioni, dissipazione, ma voglia di riscatto attraverso i saperi e la cultura. ... È uno dei frutti migliori che genera un sofferto restare, fatto di dolori e ambiguità, ma che rivela un senso di appartenenza autentico, fatto nel momento in cui i luoghi chiedevano aiuto e comprensione».
Col tempo tutto naufragò. Sospensione dei lavori, ritardi, lentezze burocratiche, raggiri e prepotenze delle cosche mafiose, spensero entusiasmi e speranze. Non solo, ma l’esibizione strumentale da parte delle classi politiche della “povertà” delle popolazioni colpite, per assicurarsi ingenti fondi e provvedimenti assistenziali, ingenerava un perverso meccanismo dalle conseguenze terribili. Scrive l’autore:
«Siamo nel periodo in cui una società che si fondava sulla fatica, sul lavoro, sulla forza assume come valore l’invalidità, l’assistenza, il sostegno dello Stato. La povertà, esasperata ed amplificata, diventa un elemento di contrattazione politica. I vantaggi immediati sono notevoli, ma i guasti culturali e morali sono enormi».
Anche BADOLATO, scisso dopo l’alluvione del ’51 in due centri, quello vecchio all’interno e quello nuovo sulla costa ionica, visse entusiasmi e successive delusioni. Contrariamente a Nardodipace, a Badolato sembrava possibile un processo di ripopolazione, di inclusione. A partire dal settembre del 2001, diversi sbarchi di profughi curdi approdarono sulla costa ionica. L’evento, che scatenò subito l’interesse dell’informazione nazionale, pose il problema di dove poter sistemare tutta quella gente disperata. Prevalse la proposta che il vecchio paese quasi abbandonato, ma ancora accogliente, potesse ospitare i profughi in fuga dalla loro terra martoriata da guerre e miserie. La popolazione e le istituzioni locali furono esemplari per solidarietà e ospitalità. L’accoglienza dei curdi nel vecchio abitato sembrava suggerire un possibile futuro di integrazione, un inedito laboratorio per riportare la vita nei paesi dell’interno, anche con risvolti economici. Si moltiplicarono le iniziative a favore dei curdi: disponibilità di case albergo, furono incentivate piccole attività artigianali, di ristorazione, manifestazioni culturali, di musica etnica. Ma anche in questo caso agli entusiasmi subentrarono delusione e stanchezza per gli esagerati ritardi, una cattiva gestione delle risorse stanziate, ma anche per un problema di fondo che indeboliva ogni sforzo progettuale. La presenza dei curdi in terra di Calabria era, in sostanza, temporanea, poiché il loro obiettivo era quello di ripartire per congiungersi ai loro familiari e connazionali in altri paesi d’Europa, in particolare in Germania laddove si concentrava una forte presenza della comunità curda. Il vecchio paese, progressivamente, si spopola di nuovo, perde ogni residua speranza di rinascita. Eppure, alcuni stranieri del Nord Europa che acquistano piccole proprietà in cui trascorrere le vacanze estive, sono la testimonianza di una potenziale ripresa, di una possibile economia legata al turismo. Qualcuno dalla ‘marina’ ancora si ostina a risalire al borgo antico, come il vecchio signore che dal balcone di casa osserva le meraviglie del paesaggio che scoscende verso l’azzurro del mare. Del borgo antico esalta la calma, il silenzio, l’assenza di traffico e di ogni altra forma di stress propinata dalla modernità. L’autore lo ascolta, lo stuzzica, gli chiede con brio quali fossero allora i motivi che hanno spinto tutti ad andar via. La risposta è immediata: «Perché sono tutti una massa di cazzoni». Tutti: locali e curdi, tutti in fuga. Tutti che vogliono la città.

Infine, CIRELLA, il paese le cui rovine in collina si stagliano come un inquietante monito per chi le osserva dalla vicina costa tirrenica. Più volte distrutto dagli eventi sismici, il paese fu abbandonato definitivamente a seguito di una invasione di formiche giganti. La leggenda costituisce un mito di distruzione, carico di fascino e di epos, al pari dei tanti miti di fondazione. Il ricordo di un lontano viaggio in treno con la madre offre l’occasione all’autore di riportare aneddoti personali e familiari.
Ripensa a un suo lontano racconto abbozzato, rimasto incompiuto e scritto proprio tra quei ruderi in collina, che finisce col rilevare in controluce un segreto camminamento, parallelo alla sua stessa condizione esistenziale. Quel doppio geografico – l’antica Cirella in alto e la nuova Cirella marina – trova riscontro nello sdoppiamento del personaggio del racconto, nella cui trama convergono vari riferimenti autobiografici. L’autore sperimenta come la narrazione di alcuni luoghi coincide con la celata e non innocua narrazione di se stessi. Nel suo peregrinare tra le rovine dove «ogni pietra che scansavo era una storia di vita che immaginavo», rapito da un paesaggio in cui convivevano ruderi e mare, vita e senso di sfacelo, di morte, l’autore si smarrisce sino a percepire qualcosa oltre il tempo presente e cogliere in un attimo un senso di eternità:

«Non so bene dire come, in quel luogo segnato dai tempi mi sono improvvisamente sentito senza tempo, senza passato e senza futuro, addirittura senza altro luogo. [...] Ho pensato oramai che il mio viaggio nei paesi abbandonati sta diventando, lentamente, ma forse lo è stato fin dall’inizio anche se non me n’ero conto, una ricerca di senso. Quel tentativo di ripensare un universo scomparso era difficilmente separabile dal tentativo di riconoscere il mio mondo perduto, di decifrare una sorta di morte che da lungo tempo mi portavo dentro. Quelle rovine parlavano anche delle mie rovine».
Una confessione resa attraverso una delicata narrazione che più volte s’interseca col dettato scientifico dello studioso, del ricercatore. Del resto Teti ha attraversato negli anni la Calabria sempre con fare discreto, commosso e partecipe, incontrando persone, annotando appunti, ascoltando le loro storie, magari a tavola davanti a un bicchiere di vino sempre pronto ad essere offerto. Ha visto e registrato ogni angolo della regione, rimanendone affascinato, intimamente legato, ma sempre estraneo ad atteggiamenti decadenti, estetizzanti da Grand Tour.
Erede della grande tradizione antropologica italiana che aveva in Ernesto De Martino, Alberto Cirese, Alfonso Maria Di Nola i suoi massimi protagonisti nelle indagini sul Meridione, Teti ha saputo rivitalizzare un campo di studi che negli ultimi decenni perdeva smalto e fascino, anche per l’affievolirsi di istanze politico-ideologiche incentrate sul riscatto dei ceti popolari e di quelle un tempo definite ‘classi subalterne’. Ma il trionfo di una sempre più aggressiva società capitalistica e consumistica mostra oggi evidenti segni di cedimento, di crisi planetarie (economiche, ambientali, sanitarie), di grandi diseguaglianze e di accresciute povertà, di disillusione delle “magnifiche sorti e progressive”. In un contesto del genere, forse, occorrerebbe ripensare, riconsiderare in una nuova prospettiva culturale ed economica, l’organizzazione di nuovi stili di vita. Magari ripensare pure a forme di convivenza proprio con i luoghi frettolosamente messi da parte e creduti morti per sempre:
«Contro ogni apparenza, i luoghi abbandonati non muoiono mai. Si solidificano nella dimensione della memoria di coloro che vi abitavano, fino a costruire un irriducibile elemento di identità. Vivono di una loro fisicità, di una loro corposa e materiale consistenza. Si alimentano di uno spessore doppio e riflesso. Pretendono non la fissità, ma al contrario il movimento, il percorso fisico e mentale di una loro continua riconquista».
Ricostruire un senso per questi luoghi può sembrare un azzardo, una sfida impossibile per il futuro.Ma un altro futuro, è sempre possibile.

Giovanni Nacca

Museo della civiltà contadina e artigiana
Pignataro Maggiore (Ce)

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