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L’ingiuria e l’offesa

giovedì 24 marzo 2011, di paparente


Io critico te – tu critichi me

Io ti ingiurio – tu mi offendi

Quanto siamo lontani dalla vera saggezza?

Da: “La costanza del saggio” di Lucio Anneo Seneca - Corduba, 21 maggio 4 a.C. – Roma, 65

Distinguiamo, o Sereno, se sei d’accordo, tra ingiuria ed offesa. La prima è più grave per natura, la seconda è più leggera ed è molesta solo ai permalosi; non danneggia gli uomini, ma li affligge. Essi però sono talmente dissennati e superficiali che c’è tra loro chi la ritiene la cosa più tormentosa. Così puoi trovare uno schiavo capace di preferire le frustate agli schiaffi, o di giudicare più sopportabili la morte e le verghe che le parole offensive. Siamo arrivati a tale assurdità, che non ci tormenta soltanto il dolore, ma anche l’idea di soffrire, come fanno i bambini che si spaventano di un’ombra, di una maschera deforme o di un volto sfigurato, o cominciano a piangere se odono parole di suono sgradevole, vedono muovere le dita o altro da cui essi, vittime dell’impulso sbagliato, rifuggono per inesperienza.

L’ingiuria si propone specificamente di infliggere del male a qualcuno. Ma la saggezza non concede spazio al male: per essa, infatti, è male soltanto l’infamia, e questa non può entrare là dove si sono già insediate la virtù e l’onestà. Dunque, se non c’è ingiuria dove non c’è male, non c’è male dove non c’è l’infamia e l’infamia non può raggiungere chi è dedito all’onestà, l’ingiuria non raggiunge il saggio. Infatti se l’ingiuria è il subire un male, ma il saggio non subisce alcun male, nessuna ingiuria tocca il saggio.

Ogni ingiuria segna una menomazione di colui che ne subisce l’attacco, e nessuno può ricevere una ingiuria, senza uscirne danneggiato in qualche modo, o nella dignità, o nella persona, o nei beni esterni. Il saggio però non può perdere nulla: ha riposto tutto dentro se stesso, non ha affidato nulla alla fortuna, conserva i suoi beni al sicuro, è contento della virtù, che non ha bisogno dell’aiuto del caso e che, perciò, non può né crescere, né diminuire. Di fatto, tutto ciò che è stato sviluppato fino al sommo grado, non ha la possibilità di crescita, e la sorte non può togliere se non quello che ha dato. Ma essa non dà la virtù, dunque nemmeno la può togliere, perché la virtù è libera, inviolabile, immutabile, inconcussa e talmente temprata contro le disgrazie, che non si lascia piegare né, tanto meno, vincere: osserva con occhio imperturbato il prepararsi di eventi terribili, ma nulla cambia del suo volto, dure o favorevoli che siano le esperienze che le si prospettano. Dunque, il saggio non perderà nulla di cui debba sentire la perdita; suo unico possesso è la virtù, ma da essa non potrà mai venire escluso. Di tutto il resto, usa in precario: e chi si commuove, se perde una cosa che non gli appartiene? Dunque, se l’ingiuria non può intaccare per nulla il patrimonio del saggio, in quanto, salva la virtù, è salvo tutto il suo avere, al saggio non può esser fatta ingiuria.

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