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"Il peso della farfalla"

mercoledì 2 dicembre 2009, di redazione


Il peso della farfalla (Feltrinelli, 2009) di Erri De Luca è un romanzo breve (o racconto lungo), che incanta e affascina fin dalle primissime pagine per la sua bellezza formale. Una bellezza che sembra il distillato raffinato di una lunga e sapiente riflessione sullo stile e sulle infinite polisemie che esso convoglia: ‘Sua madre era stata abbattuta dal cacciatore. Nelle sue narici di cucciolo si conficcò l’odore dell’uomo e della polvere da sparo. Orfano insieme alla sorella, senza un branco vicino, imparò da solo.’ (pag. 9)

Il libro con un narratore onnisciente in terza persona, racconta della storia parallela di un re-camoscio e di un cacciatore solitario: entrambi accomunati dalla consapevolezza di essere giunti al capolinea della loro esistenza. Il racconto si snoda lungo intrecciati spaccati interiori dei due protagonisti. Il camoscio aspetta il suo ultimo giorno per cedere lo scettro del branco ad uno dei maschi e il cacciatore sente che il tempo sta segnando irreversibilmente il suo corpo, le sue forze, il suo destino. Entrambi sono accompagnati da fulminanti illuminazioni ed intuizioni esistenziali, portate al lettore con semplicità ed immediatezza, con una prosa asciutta, in cui i periodi sono brevi e paratattici. In tal modo il lettore ha la percezione di ricevere una dopo l’altra verità filosofiche in pillole saporite senza uno sforzo di pensiero. Eppure le verità esposte non sono semplici, ma afferiscono ad un retroterra filosofico immenso ed arduo, magnificamente metabolizzato dall’autore. Il bello è che il lettore le coglie con disarmante semplicità: ‘C’entrava l’invidia per la superiorità della bestia, da cacciatore ammetteva la bassezza che inventa l’espediente, l’agguato da lontano. Senza certezza di inferiorità manca la spinta a mettersi all’altezza.’(pag.22)
Ne esce un quadro in cui spicca la maggiore saggezza animale, dell’equilibrio interiore e della consapevolezza di essere inseriti in un più ampio meccanismo fisiologico in cui la morte è una delle componenti e, a parere del re-camoscio, nemmeno la più drammatica: ‘Il re dei camosci seppe improvvisamente che era quello il giorno. Le bestie stanno nel presente come vino in bottiglia, pronto a uscire. Le bestie sanno il tempo in tempo, quando serve saperlo. Pensarci prima è rovina di uomini e non prepara alla prontezza.’(pag. 53)

Il cacciatore di montagna, spinto da un’urgenza interiore è portato ad isolarsi dalla sua comunità, della quale non accetta la frenesia, il parossismo dell’azione. Egli ama il passo lento e cadenzato, ama ascoltare il suo cuore e il suo corpo: ‘A sessant’anni il suo corpo era accordato bene, compatto come un pugno’ (pag. 36) ‘In quell’autunno si accorse della stanchezza in petto e nelle gambe… I vecchi devono allungare i tempi di lavoro, mentre le giornate si accorciano insieme alle forze.’ (pag. 41) Più dei suoi simili egli impara a misurare le forze e a relazionarsi con il tempo e sa che può chiedere al proprio corpo le prestazioni possibili. Egli non è affetto dalla volontà di potenza, né di onnipotenza, né è alla affannosa ricerca del tempo perduto per una vita infinita: egli sa che deve finire e lo accetta con serenità. Più si va avanti nella lettura e più si avverte la distanza dall’uomo del villaggio globale, dall’uomo del successo e del danaro e si sente in filigrana una solida critica alla società contemporanea. La quale indirettamente è invitata a rivedere lo stile di vita, le scelte collettive.
A me non sembra casuale che questo romanzo sia stato scritto ora e non prima. E’ opera di adesso perché ora sono maturi i tempi di una rivisitazione complessiva degli assetti economici, sociali e valoriali. C’è da risistemare una nuova scala di priorità dell’umanità, al cui vertice non potrà più esservi l’ipertrofico io ma dovrà esservi un generoso noi. Il peso della farfalla non è un’opera dal sapore arcadico, dal gusto del della nostalgia; al contrario è un’opera amara e spietata presentata con il guanto di velluto nella speranza di un ravvedimento del singolo e della comunità occidentale. Il romanzo nasce ora perché l’autore sa che a fatica l’umanità si sta lasciando alle spalle il mondo della post – modernità. E leggerlo è come lasciarsi andare nelle acque della coscienza nuova, mediante la quale molte delle lordure dell’oggi vengono eliminate ma l’essenza del genere umano emerge nel suo terribile candore: l’uomo è sempre minaccioso e imprevedibile: ‘Ripensò al peggio commesso e concluse per una volta ancora: andava fatto. Tornava nel suo peggio per tenerlo fresco, non farlo seccare…Con gli stambecchi sì, stava certo che non avrebbe più sparato a loro. Con gli uomini il peggio era possibile di nuovo.’(pag.40) Basta un nonnulla e lui può esplodere in violenza inaudita contro il suo simile e contro la natura.

Il libro avanza, sul piano dello stile, per sottrazione e non per sovrapposizione. Il periodo è ridotto all’essenziale, senza fronzoli o perifrasi. Le costruzioni richiamano le strutture delle poesie, in cui l’autore concentra il massimo di significato con il minimo dei vocaboli, attivando meccanismi di connotazione, evocazione e suggestione. E’ tipico della poesia, inoltre, essere illuminante in maniera coincisa, ove al lettore è lasciato lo spazio per sue riflessioni e a continuare l’azione di scavo. Non vi è pagina in cui De Luca non si lasci prendere da questo flusso poetico e collega continuamente il concreto dell’azione con l’astratto di una riflessione gnomica: ‘A casa col primo fuoco acceso riprendeva la forza e la pazienza di riportare il giorno a finitura. La sera perfeziona l’opera grezza cominciata al risveglio, a cielo ancora buio.’ (pag. 42) E’ bello questo ondeggiare tra ciò che si vede e ciò che non si vede; è bello sentirsi guidati dai tempi grammaticali del passato (imperfetto, passato prossimo, trapassato prossimo) nella narrazione dei fatti e dal presente per le asserzioni fulminanti ed epigrammatiche. Quasi sempre l’autore ama giocare con questi due tempi come a portare per mano il lettore nel tempo assoluto e lasciarlo là a riflettere. Con questo romanzo De Luca porta compimento il suo percorso stilistico cominciato con il romanzo Montediddio, scritto per la Feltrinelli nel 2003, in cui si manifestano gli stilemi venuti a maturazione ne ‘Il peso della farfalla’.

L’uomo è in lotta contro il tempo perché ne teme lo scorrere e lo vorrebbe fermare: ‘Il presente è la sola conoscenza che serve. L’uomo non ci sa stare nel presente’. (pag.57) Il cacciatore ha conquistato una sua saggezza di fondo, una saggezza da vegliardo biblico, ma non può fare a meno di uccidere , di uccidere animali nonostante che questi gli diano continue lezioni di umanità: (Il re cacciatore) aspettò lì fermo impettito la palla da undici grammi che gli passò dall’alto in basso il cuore… Qui l’uomo vide una cosa che non era mai stata vista. Il branco non si disperse in fuga… Le femmine prima, poi i maschi, poi i nati in primavera salirono verrso di lui, incontro al re abbattuto (pag. 56) ‘L’uomo abbassò il fucile. La bestia lo aveva risparmiato, lui no…Disprezzò l’istinto che gli aveva allineato il tiro’. (pag. 57)

Il romanzo è un inno alla natura, al mondo in cui l’uomo per il momento è a disagio, non si sente al posto giusto; è come se egli avvertisse un senso di autoesclusione e autodistruzione: non c’è posto nel mondo per il genere umano. Questa è la sentenza amara che il lettore è indotto a formulare istintivamente. Intuizione, questa, consolidata dal brevissimo racconto finale Visita ad un albero , in cui il protagonista è un cirmolo, parente dell’abete. E l’albero si sente a casa sua nel mondo degli elementi e della natura, lui che, pur essendo minacciato dal fulmine, è ottimista, e fiducioso perché sa rigenerarsi e rinascere: ‘Il cirmolo è capace di biforcarsi in due rami principali…Il fulmine è suo padre secondario…Terra è sua madre in cui si attacca a polipo di scogli’. (pag. 64)’ E’ l’abbraccio di cielo e terra, si toccano le estremità opposte. E’ un abbraccio nuziale. Chi si trova chiede scusa di essersi intrufolato nell’intimità’ (pag. 69) E l’uomo oggi, sradicatosi dal mondo è a un passo dall’autodistruzione. Continuerà a separarsi, a divorziare dal mondo? Chissà! Chi ha fede, crede in una sua resipiscenza; chi no, dispera.

Prof. Giuseppe Rotoli

Erri De Luca (Napoli, 20 maggio 1950) è uno scrittore e traduttore italiano. Giovanissimo, a diciotto anni nel 1968 raggiunge Roma, dove entra nel movimento politico Lotta Continua, divenendone uno dei dirigenti attivi durante gli anni settanta. In seguito svolge numerosi mestieri in Italia e all’estero, come operaio qualificato, camionista, magazziniere, muratore.
Durante la guerra in ex-Jugoslavia è autista di convogli umanitari destinati alle popolazioni. Studia da autodidatta diverse lingue, tra cui l’ebraico antico dal quale traduce alcuni testi della Bibbia. Lo scopo di queste traduzioni, che De Luca chiama “traduzioni di servizio”, non è quello di fornire il testo biblico in lingua facile o elegante, ma di riprodurlo nella lingua più simile e più obbediente all’originale ebraico. Pubblica il primo libro nel 1989, a quasi quarant’anni: Non ora, non qui, una rievocazione della sua infanzia a Napoli. Regolarmente tradotto in lingua francese, tra il 1994 e il 2002 riceve il premio France Culture per Aceto, arcobaleno, il Premio Laure Bataillon per Tre Cavalli e il Femina Etranger per Montedidio. È del 1999 il libro Tu, mio. Collabora a diversi giornali (La Repubblica, Il Corriere Della Sera, Il Manifesto, L’Avvenire, Gli Altri) e oltre i suoi articoli d’opinione, scrive anche sulla montagna.

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