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Castelvolturno. Ovvero: Là bas

giovedì 15 settembre 2011, di redazione


E’ in programmazione nei cinema di tutta Italia, il film Là bas, di Guido Lombardi. Il film, premiato a Venezia ( “pure a Venezia ci siamo fatti conoscere!”), non l’ho visto ancora ma, per ora, mi interessa solo il titolo per poter parlare ancora una volta del problema dei nostri immigrati diseredati e di Castelvolturno denegato. Sono sicuro che Lombardi ha raccontato cose vere, anche se risulteranno, come sempre, sgradite per tanti castellani. Sgradite - questo si può dire - perché ritengo umano, legittimo, provare un senso di sofferenza ogni volta che si guardano le ferite del proprio paese, in cui sono impresse anche le ferite e i lutti di tanti africani. E’ utile parlarne sempre. E’ ignobile solo non porvi riparo.
Là bas! Dove?
Là bas, sta per Castelvolturno. Si esprimono così alcuni africani presenti a Castelvolturno, e certamente i protagonisti del film. Il termine è usato anche da alcuni napoletani della periferia che, come gli africani, hanno derivato l’espressione dalla dominazione francese. Ma strascicano la esse, riadattano il vocabolo al napoletano, e dicono l’abbasc’.
Una volta, per indicare il paese, si diceva Castelvolturno, e basta. Ed il riferimento era solo al vecchio Centro Storico. Ora, l’intero litorale per molti è diventato un non luogo, un altrove, un grande agglomerato che ha perso la propria identità, compreso il Centro Storico. C’è stato un declassamento. E’ diventato Là bas, e per chi lo dice, va bene così, è sufficiente. Tanto qui o in un altro posto fa lo stesso, specialmente quando non c’è niente che unisca l’uno all’altro.
Spesso viene osservato che gli immigrati, come pure molti di coloro che si sono trasferiti dall’hinterland aversano e napoletano, il paese non lo “amano” (termine desueto ed esagerato!). E perché mai dovrebbero amarlo? Lo amano, naturalmente, quelli che come me ci sono nati anni fa - e che non sono più tanti - e che non si rassegnano alla sua deriva. Per le nuove generazioni, invece, nate in un diverso contesto, e spinte a partire in cerca di alternative, è difficile che si sviluppi un legame duraturo; figuriamoci quando si viene da paesi lontani, quasi sempre sospinti da mille necessità vitali, non soddisfatte in un altro altrove. E già con la voglia di andare via al più presto.
Qui da anni i clandestini, soprattutto, si possono meglio eclissare nell’incontrollato groviglio delle case, diventare invisibili, e possono anche trovare soluzioni abitative che altrove non troverebbero. Ma, ovviamente, solo nelle zone più degradate. Si tratta di soluzioni precarie, spesso di sfruttamento. Ma loro non possono permettersi altro. E Castelvolturno corrisponde alla domanda.
In Italia non c’è una efficace legge che tuteli gli immigrati per l’ingresso, né una valida politica di accoglienza di medio e lungo termine. Gli immigrati vivono allo sbando. Castelvolturno, per paradosso, è uno dei pochi paesi ad avere un valido Centro per adulti e anche un Centro per minori. E diciamo pure, buoni servizi sociali. Ma non bastano rispetto al numero e alle necessità.
Al disagio del luogo d’origine - da cui si è fuggiti - si somma, quindi, il disagio del vivere quotidiano in vecchie lottizzazioni abbandonate e senza servizi. Ma qui, proprio per questa ragione, si comprano ville dismesse a prezzi stracciati: in un territorio con servizi primari e secondari, edificato nel rispetto delle regole, tutto avrebbe un costo più alto. E sarebbe un problema per gli immigrati - e non solo per loro! - trovare un appartamento, magari ammassandovisi dentro.
All’arrivo, qualsiasi soluzione, va sempre bene. Ma poi, naturalmente, le condizioni di vita diventano insopportabili, spesso la malavita li opprime, e allora nasce la protesta, comprensibile e umana. Ma ci si dimentica della iniziale scelta, consapevole, e ci si lamenta come chi ha pagato per un servizio non reso. Anche questo vale per tutti.
Per molti, quindi, il litorale è solo un altrove, un non luogo provvisorio - come con termini abusati si dice - che serve da base/dormitorio per cercare lavoro in altri paesi del circondario, e poi ritornare la sera. E’ così da anni, specialmente per gli africani che non si sono inseriti, e che nelle nostre terre hanno trovato spesso solo sofferenza, sfruttamento e morte per mano della camorra. Sicché il Paese - che pure ha una sua storia e una dignità - può anche non avere un nome.
Sono immense le responsabilità politiche che dalla Sicilia alla Calabria, dalla Puglia alla Campania, da anni proiettano sulla gente - siano essi immigrati, oppure italiani provenienti dalle nostre periferie, oppure locali - gli effetti deleteri di un malgoverno del territorio. E’ una storia complessa e ostica, con la quale bisogna sempre fare i conti, perché non è risolta, né facilmente archiviabile. Forse per questo, non solo Castelvolturno, ma l’intero Sud toccato dagli immigrati, è un indifferenziato Là bas.
In tutto ciò, l’unico vero innocente, è il territorio, costretto al sovraffollamento, al degrado, e ad un difficile risanamento. E’ come una zattera sulla quale facilmente si approda da lontani mari perigliosi, oppure da vicine terre anch’esse agitate.
Castelvolturno, pur tra mille difficoltà, ci prova a venirne fuori. Lo ha fatto nel passato e lo farà ancora. Dovrà riconquistare un’anima e meritarsi un volto moderno. Possibilmente anche un comune sentire da parte di tanta gente che vive sul territorio, ma da spaesata. Perché non si può vivere sempre senza legami, in un non luogo, né essere a lungo una non popolazione.
Sono convinto che per chi vi si è stabilito, non potendo parlare di “amore” - per un territorio che lo meriterebbe! - si debba necessariamente parlare di civiltà, in modo ampio. Senza civiltà, non sarà mai possibile trovare un modus vivendi; senza il rispetto della legge, non sarà mai possibile un ordinato sviluppo; senza legalità non si potrà mai fronteggiare la camorra, lo spaccio della droga, la prostituzione... Senza civiltà non si avrà mai una vera solidarietà, né sarà mai possibile una adeguata accoglienza. Si resterà sempre naufraghi su una zattera alla deriva, e senza nome. Là bas!

Mario Luise

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