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Una poesia di Giovanni Nacca

Un nugolo di pensieri arroventa la notte

domenica 25 aprile 2010, di redazione

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Un nugolo di pensieri arroventa la notte
mentre sistemo l’inventario delle cose perdute
speranze andate
fantasmi di vento lontani.
Non erano certezze, sabbia e croste
dimora di serpi e neri scorpioni
colati nello scorrere lento delle ore.

Aspetto il giorno con la sua dote di luce.
E allora abbraccerò per intero un raggio di sole
filigrana di una salvezza che non muore.

Questa intrigante poesia è tratta dall’ultimo volume di Giovanni Nacca, FERITOIE (Il Faggio, 2010). I dieci versi, di varia lunghezza, sono divisi in due gittate strofiche: la prima di 7 e la seconda di 3. E la ripartizione binaria non è un caso, perché vuol dare da subito l’idea di una netta contrapposizione tra due blocchi; da un lato l’universo della notte e del buio e dall’altro il nuovo mondo del giorno e della luce.

La notte è il tempo/luogo del rovello, del trapano che perfora inarrestabile la mente e la inchioda alla ricerca irrefrenabile dell’esperienza. E’ la recherche du temps perdu? A me non pare proprio; anzi mi sembra un definitivo epitaffio su una stagione di veleni superata e sorpassata: la stagione delle speranze andate, direi disattese, tradite da una generazione, quella del ’68, rivelatasi più sensibile al dio minore del danaro, che al Dio maggiore dell’Umanità. Un tempo di sabbia, cioè di idee friabili, che crollano al primo soffio e al primo cozzo con la realtà e con le contraddizioni della Storia; un’epoca di croste, ovvero di rimasugli inservibili, ammuffiti, decrepiti e logori di bei pezzi di pani, nei quali la voce narrante sembra aver creduto fino in fondo e per i quali ha lottato, sofferto e pagato, come sempre fanno gli spiriti eletti, che non cedono al compromesso degli affaristi e degli arrivisti. Un’epoca di serpi e di scorpioni quando l’abbraccio dell’amico invece di essere abbraccio di gioia, di lealtà e di rispetto era un abbraccio infido, subdolo, traditore e velenoso.

Altro scenario e altro registro la seconda strofa da cui emergono due efficacissime immagini: il giorno che porta luce in dote e l’abbraccio con un raggio di sole. La parola centrale di questo verso (8) è ‘dote’ ed è in stridente contrasto con tutte le connotazioni utilitaristiche del giorno d’oggi. Dote è sinonimo di danaro, ricchezza, anche di bramosia di possesso, insomma un vocabolo pregno di rinvii negativi, direbbe Paul Grice, di ‘implicature naturali e innaturali’. Ed invece questo appassionato verso di 13 sillabe, che porta l’accento principale su ‘dote’, riveste di significato nuovo il termine. La dote non è né danaro e né potere, ma è luce, è vita, è libertà dalla materia, è anelito allo spirito. Con questo efficace sintagma il Nacca riesce a mettere in contrasto due visioni del mondo ora in lotta: il buio e la luce, con la vittoria, almeno nella vita della voce narrante, della luce. Si intravede in controluce la ricerca di un nuovo assetto valoriale, di una nuova ‘episteme’ direbbe M. Foucault, in cui la dote non è il soldo e la filigrana non è l’oro, ma è l’universo di infinite, sottili, quasi invisibili, sfumature sentimentali, affettive e spirituali, alle quali è affidata la salvezza dell’umanità futura.

Giuseppe Rotoli

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